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Giuseppe Bertoncello
domenica 30 novembre 2008
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domenica 23 novembre 2008
Annus horribilis
A ogni nuovo scossone sui mercati, in questo memorabile 2008, si sprecano i riferimenti alla crisi del ’29 e alla Grande Depressione degli anni ’30. Si tratta in genere di stereotipate affermazioni avare di sostanza. Ma in qualche caso le iperboli hanno un fondamento. Stanno nei fatti e nei numeri, come evidenziano alcuni grafici che mi è parso utile raccogliere qui di seguito per un paio di ragioni: danno un’idea dell’eccezionalità della “sbandata” presa dagli investitori in questo annus horribilis, e offrono il destro sia per un ammonimento che per una rassicurazione, entrambi preziosi al fine di ritrovare un po’ di equilibrio in tempi così squilibrati.
Il primo grafico, a cura di Value Square Asset Management e dell’Università di Yale, che ho ripreso dal blog Investment Postcards from Cape Town, mostra la distribuzione dei rendimenti totali (inclusi dunque i dividendi) del mercato azionario americano, anno per anno, dal 1825 a oggi. La perdita del 45% circa registrata sinora nel 2008 colloca il corrente anno all’estremità negativa del range, alla pari solo col 1931.
A chi non trovi in questo nulla da eccepire, va rammentato cosa fu il 1931. Fu l’anno in cui la produzione industriale negli Stati Uniti crollò del 30% rispetto al picco di due anni prima e la disoccupazione raggiunse il 16% della forza lavoro. Era stata appena del 3% nel 1929, culminò al 25% nel 1933. (Oggi, per dare un’idea, si trova al 6,5% e si stima che possa valicare l’8% alla fine del prossimo anno)
Il 1931 fu poi l’anno delle crisi bancarie e valutarie internazionali, che in alcuni casi, come in Gran Bretagna e in Austria, portarono anche alla caduta dei governi. Negli Stati Uniti chiusero i battenti 2293 istituti di credito (oltre il 10% del totale) con perdite per i depositanti di 391 milioni di dollari, una cifra pari a circa 70 miliardi di dollari di oggi se si tiene conto di quanto è cresciuta da allora l’economia. Stiamo parlando dello 0,5% del PIL.
Immaginiamo, per attualizzare il discorso alla nostra Italia, come ci sentiremmo se nel 2008 fossero andati in fumo quasi 8 miliardi di euro di depositi, svaniti nei crack di un’ottantina di istituti bancari.
Da noi, nel 2008, le banche non sono fallite. Ma in America sì, anche se in modi alquanto diversi dal 1931. Il sito della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) ci dice che le chiusure di istituti creditizi, negli Usa, sono state 22. Nella quasi totalità dei casi, i depositi sono stati rilevati da altre banche. Laddove ciò non è stato possibile, come nella bancarotta della californiana IndyMac Bank, è intervenuta la FDIC, creata nel 1933 sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, proprio per assicurare con fondi federali i depositi degli americani.
Dicevo che il 1931 fu l’anno dell’internazionalizzazione della Grande Crisi. Nel maggio dichiarò fallimento l’austriaca Credit Anstalt, la più importante banca dell’Europa centro-orientale, creata a metà dell’Ottocento dai Rothschild (Credit Anstalt fu in seguito salvata dalla banca centrale austriaca e poi acquisita, in tempi molto più recenti, da Bank Austria, fusasi quindi con la tedesca HypoVereinskBank, che è infine divenuta parte di Unicredit).
Il panico suscitato dalla caduta della grande e prestigiosa Credit Anstalt produsse una corsa alla conversione di depositi liquidi in oro che devastò, in un’infernale partita a domino, i sistemi finanziari e valutari di buona parte del mondo allora avanzato. La crisi fu particolarmente acuta in Germania e in Gran Bretagna, dove il tentativo disperato di difendere il cambio indusse la Banca d’Inghilterra ad alzare i tassi a breve (in piena depressione!) di 350 punti base fino al 6%.
Alla fine, il governo britannico rassegnò le dimissioni e la parità della sterlina con l’oro – riconquistata a stento, ad opera di Churchill, appena sei anni prima – fu definitivamente abbandonata. Il contagio, a quel punto, si trasferì di nuovo oltre Atlantico, dal momento che gli investitori – una volta caduta una delle due valute più importanti dell’epoca – cominciarono a scommettere che anche l’altra, e cioè il dollaro, sarebbe andata a rotoli.
La parità aurea del biglietto verde fu difesa inizialmente con successo (sospesa alla fine nel 1933, fu ristabilita in seguito a un livello svalutato) ma il prezzo da pagare fu straordinariamente elevato. Nell’ottobre, la Federal Reserve alzò i tassi a breve di 200 punti base, una mossa che consentì di arrestare il rapido deflusso di riserve auree ma al costo di infliggere un altro fatale shock alla già depressa attività economica.
Questo fu il 1931. Quale sarebbe il consuntivo del 2008 se la Fed, al suo prossimo incontro di metà dicembre, anziché mettere in atto – come tutti si aspettano – un ulteriore abbattimento dei tassi verso quota zero, ne annunciasse un rialzo di due punti percentuali?
Oggi, a quanto pare, a generare il panico sui mercati sono altri fattori, che hanno a che fare col repentino processo di deleveraging perseguito simultaneamente da una folla di grandi operatori finanziari più che con l'andamento dell'economia reale. Che di panico comunque si tratti – e in una delle sue incarnazioni più parossistiche - non c’è dubbio. Ce lo dicono un altro paio di grafici, tratti questa volta dal blog di Bespoke Investment Group.
Il primo ci mostra lo spread tra l’indice S&P 500 e la sua media mobile a 200 giorni, dal 1927 al 17 novembre scorso, quando il prezzo era sceso del 32% sotto il livello medio delle 200 sedute precedenti. Nei giorni scorsi questo differenziale è arrivato a toccare il 40%, un estremo tale da avere un unico precedente, a cavallo tra il 1931 e il 1932.
Come il grafico mette in chiaro, il rimbalzo da un livello tanto esasperato, quando alla fine si materializzò, fu altrettanto fulminante. L’indice si spinse fin quasi il 60% oltre la media mobile a 200 giorni. Sia nell’estate del 1932 che a cavallo tra la primavera e l’estate del 1933 Wall Street si imbarcò in furibondi rally che fecero all’incirca raddoppiare le quotazioni azionarie, in entrambe le occasioni, nel giro di pochi mesi.
Per capire come fu possibile, e come sul mercato azionario si siano di recente create condizioni analoghe, vale la pena considerare un secondo grafico di Bespoke Investment Group, che illustra la volatilità dell’indice S&P 500, espressa in termini di media a 50 giorni della variazione giornaliera assoluta.
L’11 novembre scorso, quando il grafico è stato pubblicato, il dato era pari al 3,26%. Da allora non ha fatto che aumentare, visto che si sono succedute diverse sedute con variazioni superiori al 5% mentre sono uscite dalla media le giornate ancora relativamente compassate che precedettero il crollo di Lehman Brothers a metà settembre.
Simili livelli di volatilità, ancora una volta, hanno un unico precedente, nel periodo più cupo della crisi degli anni ’30.
Ci sono, dunque, o non ci sono analogie tra oggi e allora? Con ogni evidenza una Grande Depressione non è ancora tra noi né sembra sensato anticiparne l’arrivo – se appena si considerano le enormi iniezioni di liquidità offerte dalle banche centrali e le ingenti manovre espansive della finanza pubblica che quasi tutti i governi si accingono a mettere in campo. Il 2008, a ben vedere, è molto diverso dal 1931. Ma per i mercati, per certi versi, un’epoca vale l’altra – o almeno così pare.
C’è qui una contraddizione o per lo meno una divaricazione tra economia reale e finanza che, per essere meglio compresa, avrebbe bisogno di un esame più attento degli incomparabili eccessi (di arroganza, di spregiudicatezza, di distacco dalla realtà e dal buon senso, di effetto leva e speculazione) attinti dal mondo della finanza negli ultimi anni – eccessi che hanno infine contribuito a rendere la finanza una parte insostenibilmente larga dell’economia.
Altrove, in questo blog, ne ho parlato. Ci ritornerò, limitandomi per ora ad aggiungere solo il link a una devastante, a tratti esilarante, ricostruzione di tanta dissennatezza, pubblicata di recente da Michael Lewis, già autore alla fine degli anni ’80 di Liar’s Poker, uno dei più classici exposé delle follie di Wall Street (libro purtroppo mai tradotto in italiano).
Vorrei qui invece concludere questo collage di grafici con le due note – una di rassicurazione e l’altra di ammonimento – che avevo annunciato in avvio.
Abbiamo visto come ci siano effettivamente dei parallelismi tra alcuni tratti negativi dei mercati azionari di oggi – l’entità e la rapidità del crollo dei prezzi, l’estrema volatilità - e quelli che tra il 1931 e il 1932 si spingevano verso il fondo della Grande Depressione. Ne vorrei aggiungere un altro, che è invece di buon auspicio. Lo si coglie nel grafico che segue, a cura di Bespoke Investment Group, tratto da un recente articolo di Joseph Dancy, professore della SMU School of Law di Dallas. Mostra l’andamento dei rendimenti totali decennali del mercato azionario americano dal 1900 a oggi.
Come si vede, nel 2008 la linea finisce per cadere sotto lo zero, a indicare che un investimento fatto in azioni americane dieci anni fa – comprensivo dei dividendi – avrebbe dato a oggi un rendimento negativo. E’ accaduto prima solo negli anni ’30, esattamente nel 1932 e poi di nuovo nel periodo 1936-1939.
Da quei punti di minima i rendimenti decennali sono poi sempre risaliti fino a toccare picchi del 600%. Alle fasi di bassi rendimenti ne sono seguite altre di rendimenti elevati, in una continua oscillazione attorno a una media decennale del 250% circa, che corrisponde a poco meno del 10% annuo.
Il grafico, in altri termini, aiuta a capire come l’attuale devastante fase di declino dei prezzi, che va a cumularsi, dopo un lasso di tempo relativamente breve, al grande bear market del 2000-2002, abbia compresso i mercati azionari verso quelle condizioni di profonda sottovalutazione da cui, prima o poi, hanno preso le mosse i grandi bull market secolari.
Gli anni horribiles, coniugati a condizioni valutative attraenti, si sono sempre dimostrati delle occasioni d’oro per gli investitori accorti e pazienti, capaci di operare in un orizzonte di lungo periodo.
Questo ci racconta l’andamento del mercato americano. E si tratta della regola per la gran parte dei mercati azionari nell’ultimo secolo e anche più. E’ bene però anche ricordare – ed è questo l’ammonimento – che ci sono state delle eccezioni, come ci fa capire quest’ultimo grafico dell’indice giapponese Nikkei, sempre a cura di Bespoke Investment Group.

Il mercato giapponese è crollato nelle ultime settimane ai livelli del 1982, ossia di 26 anni fa. Un cassettista quarantenne, che avesse investito tutti i suoi risparmi nel Nikkei nel 1982 (quando era luogo comune l'ottimismo sulle sorti del Giappone - destinato, si diceva, a superare in breve l'America), si ritroverebbe oggi in pensione con un nulla di fatto, dopo aver assistito alle più pirotecniche evoluzioni nel valore del suo investimento.
Com’è stato possibile? Lo si deve sia alle eccezionali dimensioni della bolla speculativa che travolse il Giappone negli anni ’80 (quando la capitalizzazione della Borsa nipponica superò quella di Wall Street e si stimava che i terreni su cui sorge il palazzo imperiale di Tokyo valessero più di tutto il real estate della California), sia al cumulo di errori compiuti dalle autorità giapponesi quando, a bolla scoppiata, fu consentito a depressione e deflazione di mettere piede nel sistema economico e affondarvi le loro radici per oltre un decennio.
Il caso giapponese dovrebbe servire di lezione. Crisi finanziarie acute come l’attuale e le inevitabili e spesso profonde recessioni che ne seguono sono periodi in cui prevalgono di gran lunga le opportunità, purché non si ignorino i rischi.
Se nella gran parte dei casi gli esiti dell’attuale collasso saranno positivi e rigenerativi, i fallimenti – d’altra parte – non mancheranno. Ci saranno società quotate che non ce la faranno a sopravvivere mentre non tutte le aree economiche e i sistemi paese sapranno superare le sfide con uguale destrezza. All’emergere di nuovi protagonisti farà da contrasto anche lo smarrirsi alla periferia della storia di logori attori.
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Giuseppe Bertoncello
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Etichette: mercati azionari
venerdì 14 novembre 2008
Gli investitori value sfidano il bear market
A cavallo dell’ultimo fine settimana di ottobre, quando gli indici di Borsa americani sono ridiscesi verso i minimi del 10 ottobre e quelli europei e asiatici sono sprofondati ancora più giù, ho di nuovo acquistato azioni. E qualcosa ho comperato anche nell’ultimo paio di giorni. Nei momenti di massimo sconforto e paura, ho preso atto di quello che faceva la massa e mi sono regolato di conseguenza: ho fatto l’opposto. Nel mio portafoglio di attività finanziarie, i titoli azionari, che avevo drasticamente tagliato al 15% già nella prima metà del 2007, sono così arrivati a costituire una quota del 55%.
Per la mia età, condizione economica e propensione al rischio, si tratta di un’allocazione né scarsa né esagerata ma solo un po’ inferiore alla norma. In gergo tecnico, resto sottopesato. Sono tuttavia molto più propenso ad accollarmi rischi di quanto non lo sia stato nel biennio che ha preceduto il recente crollo delle Borse.
Perché mai sono entrato, con tutti e due i piedi, nel tritacarne di questi mercati ad altissima volatilità, capaci di salire o scendere del 20% nel giro di pochi giorni? Sprezzo del pericolo? Sventatezza? Irrefrenabile pulsione speculativa? Non direi. Ho solo agito secondo la visione strategica che avevo abbozzato, a metà ottobre, nel post “Punto di svolta.”
In quell’articolo raccontavo, a grandi linee, cosa mi aveva indotto, alla fine delle quattro tumultuose settimane che avevano fatto seguito al collasso di Lehman Brothers, a lasciarmi alle spalle la pessimistica attitudine che da tempo nutrivo nei confronti delle Borse fino a convincermi a dare il via a un graduale piano di accumulazione.
Volendo riprendere quelle osservazioni in modo un po’ più sistematico, direi che il punto di svolta nella mia strategia d’investimento poggia su due pilastri: le valutazioni dei mercati e la psicologia degli investitori. Non è poco, visto che si tratta dei due fattori che più contribuiscono a determinare l’evoluzione dei prezzi nel lungo periodo. Entrambi, da negativi che erano, sono diventati positivi – almeno, così mi pare - in breve volgere di tempo.
Mi concentrerò qui sulle valutazioni, lasciando le considerazioni di ordine psicologico a un prossimo articolo.
Per i migliori value investor i mercati sono sottovalutati
L’idea che i mercati azionari, dopo il dimezzamento patito nell’ultimo anno, siano tornati a essere valutati in modo accattivante non è mia. E’ di diversi tra i migliori value investor al mondo.
Ne è convinto, ad esempio, Warren Buffett, che in un articolo per il New York Times del 16 ottobre scriveva: “Se i prezzi continueranno a restare attraenti, il mio portafoglio personale (che non comprende la sua quota in Berkshire Hathaway, ndr) sarà presto investito al 100% in azioni americane” (fino a qualche settimana fa era totalmente investito in titoli di stato, ndr).
“Le cattive notizie sono il miglior amico di un investitore,” sostiene Buffett, ricordando qual è, da sempre, la sua regola fondamentale: “Sii timoroso quando gli altri sono avidi, e avido quando gli altri sono timorosi.”
La paura, al momento, è diffusa al punto da paralizzare anche gli investitori più navigati – nota Buffett. E tuttavia, “i timori relativi alla prosperità di molte sane aziende non hanno alcun senso.”
Conclude così: “Vorrei essere chiaro su un punto: non sono in grado di predire i movimenti di breve periodo del mercato azionario. Non ho la più pallida idea se le azioni andranno su o giù nel prossimo mese o nel prossimo anno. Quel che è probabile, tuttavia, è che il mercato salirà, forse anche di molto, ben prima che l’umore degli investitori o l’economia comincino a migliorare.”
Del ritrovato appeal delle azioni ha scritto di recente, nella sua ultima lettera trimestrale agli investitori, anche Jeremy Grantham, un altro nume tutelare del value investing.
Per la prima volta da oltre una quindicina d’anni – nota Grantham - il mercato americano è sceso al di sotto del suo valore equo (fair value), da lui stimato a circa 975 punti per l’indice S&P 500. Ancora più sottovalutati risultano i mercati emergenti e quello europeo.
Ciononostante, c’è in Grantham, molto più che in Buffett, anche un’accentuazione dei motivi che continuano a indurlo a una certa cautela.
Gli investitori value hanno la tendenza ad anticipare le svolte del mercato, a volte sin troppo. Vedono prima degli altri l’emergere di eccessi ingiustificati, sia che si tratti di sopravvalutazione o di sottovalutazione. Danno più ascolto alla propria ragionevolezza che all’irrazionalità dei molti disposti a inseguire bolle e depressioni. Così finiscono a volte per tuffarsi controcorrente quando la marea di chi compera con avidità vicino ai massimi e vende con abbandono vicino ai minimi sta ancora montando.
Storicamente – nota Grantham - le grandi bolle azionarie, caratterizzate da protratti periodi di stravaganti sopravvalutazioni, si sono chiuse con una crisi (la Grande Depressione degli anni ’30, le crisi petrolifere degli anni ’70) che ha fatto sprofondare gli investitori in estremi opposti di abbattimento e disfattismo. I mercati azionari hanno finito per toccare eccessi di sottovalutazione anche del 50%.
Per questa ragione Grantham teme che il fondo dell’attuale bear market non sia stato ancora raggiunto e che nei prossimi mesi ci possa essere un’ultima ondata di ribassi che spinga l’S&P 500 verso minimi collocabili in un ampio range tra 600 e 800 punti.
Tuttavia, non è esercitandosi nell’improbabile arte del vaticinio del futuro che si può pensare di avere successo come investitori, bensì orientando la barra sul ben più affidabile riferimento delle valutazioni correnti del mercato in relazione a quelle storiche di lungo periodo.
Avere un’idea di quali siano gli eccessi a cui il mercato si può lasciare andare è utile, nota Grantham. Insegna ad avere prudenza. Ma non può essere il fondamento di una strategia d’investimento. Per un value investor, questo caposaldo è il valore. Insomma, detto con schiettezza, “se le azioni sono prezzate in modo attraente e tu non compri e poi i prezzi scappano via al rialzo, non è che finisci per sembrare un idiota: lo sei!”. Grantham, dunque, sta comprando anche se in modo prudente e graduale.
Giudizi di valore ben ponderati
Chi, forse meglio di tutti, ha spiegato su quali premesse si basi il ritrovato ottimismo dei value investor è stato però John Hussman, un investitore della nuova generazione i cui fondi, nell’ultimo decennio, hanno avuto uno straordinario successo, ottenendo rendimenti annui di almeno dieci punti superiori a quelli del mercato.
Nelle sue lettere settimanali Hussman ha di recente fatto notare come – ai minimi del mese scorso – l’indice S&P 500 sia sceso a un multiplo degli utili (P/E) di appena 10 volte, rispetto a una media storica di 14.
Bisogna qui intendersi. Gli utili cui Hussman fa riferimento non sono né quelli attesi dagli analisti né quelli fatti segnare nell’ultimo anno (le misure che tutti di solito citano) ma quelli massimi del ciclo (i cosiddetti peak earnings, ossia i più elevati registrati, entro il termine temporale di riferimento, in un arco di quattro trimestri).
Che senso ha questo peak earnings P/E? Come ho più volte scritto nel mio blog, il problema più grave nell’utilizzo di uno strumento di valutazione come il multiplo degli utili sta nell’enorme volatilità degli utili stessi, che nel corso di un ciclo economico hanno la tendenza a crescere a tassi anche superiori al 20% annuo nella fase espansiva per poi crollare magari del 50% al precipitare di una recessione.
Come si possono trarre delle affidabili indicazioni di valore del mercato, se la base di valutazione è così instabile? Sarebbe come se mia moglie, che di professione fa l’architetto, si mettesse a misurare case con un elastico.
Per rendersene conto basta dare un’occhiata al seguente grafico, tratto dall’ultima lettera settimanale di Hussman, in cui è rappresentato l’andamento degli utili dell’S&P 500 a partire dal 1950.
Dalla sommità più recente, raggiunta a metà del 2007, sono seguiti – e non avrebbe dovuto sorprendere! - cinque trimestri di utili in calo (l’ultimo, il terzo del 2008, si sa che sarà negativo ma non è rappresentato nel grafico dato che i risultati sono ancora in via di pubblicazione). Il tipico andamento altalenante attorno a un’ideale e ben più stabile pendenza (quella identificata nel grafico dalla retta rossa che collega tra loro i vari picchi) è insomma continuato. Nihil sub sole novi.
Naturalmente, dagli abissi attuali – o dei prossimi trimestri – è altrettanto probabile che poi si risalga. E un investitore accorto ne dovrebbe tenere conto nella propria strategia, così da evitare di essere sviato dalla miopia dei più.
Per fare un esempio, che senso può avere che il titolo di una grande azienda di successo crolli magari del 5% o 10%, com’è accaduto a più riprese negli ultimi giorni, in seguito all’annuncio di una revisione al ribasso delle stime per il prossimo trimestre? Un trimestre o anche due di utili dimezzati può incidere di una frazione di punto percentuale sul fair value di una tale società (che viene calcolato in base alla ragionevole aspettativa che continui ad esistere e a generare utili per i suoi azionisti per svariati decenni).
L’irragionevolezza di molti investitori, sommata alla ciclica volatilità degli utili, sollecitano a un uso ingenuo del P/E. Utili insostenibilmente elevati tendono a deprimere i P/E mentre utili insostenibilmente depressi li fanno lievitare. Se ne dovrebbe forse concludere che le azioni sono sottovalutate in prossimità del picco del ciclo e sopravvalutate al fondo della recessione? In verità, è vero in genere il contrario.
La soluzione a questo paradosso, che gli investitori attenti al valore si sono sforzati di cercare sin dai tempi di Benjamin Graham – maestro di Warren Buffett e caposcuola del value investing – sta nella normalizzazione degli utili.
Si tratta insomma di elaborare una qualche misura degli utili che non sia scioccamente definita dal calendario (l’ultimo trimestre, l’ultimo anno, etc.) né sia, peggio ancora, gonfiata ad arte dalle esigenze di marketing dell’industria degli investimenti (com’è spesso il caso per gli utili attesi). Un buon metro deve invece tener conto di ciò che davvero importa e cioè del ciclo economico così da essere, nel tempo, stabile e affidabile a fini di comparazione.
Hussman, nella tradizione del value investing, questa soluzione l’ha trovata ideando il peak earnings P/E, la cui genialità, oltre che nella facilità di misurazione, sta nel fatto di assumere come parametro di base per la stima del valore i punti via via più prossimi all’andamento costante della retta rossa del nostro grafico anziché le volubili, inaffidabili evoluzioni degli utili da un trimestre all’altro.
Come il grafico evidenzia, quella retta rossa ha due straordinarie caratteristiche, che in verità si estendono ben oltre l’arco di sei decenni lì rappresentato (e ben oltre il solo mercato americano) fino a coprire i quasi due secoli di dati a nostra disposizione:
a) incurante di guerre, crisi finanziarie e rivoluzioni tecnologiche, quella retta ha finora agito come un’infaticabile magnete sull’andamento degli utili nel lungo periodo. Quando gli utili se ne allontanano, la sua attrazione si fa più forte assicurando l’ancoraggio a una traiettoria di crescita costante. Fuor di metafora, quella retta dimostra quanto sia forte la tendenza degli utili a regredire verso la media;
b) la pendenza della retta è stupefacente nella sua stabilità: disegna una crescita degli utili del 6% l’anno. E se si tiene conto del fatto che per ottenere questo tasso di crescita le aziende hanno storicamente reinvestito circa la metà dei loro profitti, distribuendo la restante metà agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback, ecco risolto il mistero della costanza dei rendimenti azionari nel lungo periodo, attorno al 9-10% annuo in termini nominali.
Nell’ultimo decennio i rendimenti sono stati vicini allo zero? Non c’è da stupirsi. Alla luce della storia, era ampiamente prevedibile. Gli investitori hanno pagato gli eccessi dei due decenni precedenti, quando le azioni ebbero rendimenti doppi rispetto alla media (18% l’anno dal 1982 al 1999 in una sfrenata ascesa che illuse anche il più improvvisato degli investitori di avere scoperto in sé il genio della finanza).
Fatte tutte queste premesse sul senso e l’utilità di fare ricorso a un metro così ragionevole come il peak earnings P/E di Hussman, siamo ora pronti a vederlo in azione, nei due grafici seguenti. Il primo, tratto da una lettera del gennaio 2008, raffigura il peak earnings P/E (linea blu) dal 1940 alla fine del 2007 (nei dieci mesi successivi, qui non rappresentati, il P/E è crollato da 15 a 10)…
…mentre il secondo, meno recente perchè tratto da una lettera del febbraio 2005, ne dà una rappresentazione di più lungo periodo, dal 1870 alla fine del 2004.
Come ho già notato, il P/E di Hussman, ai minimi del mese scorso, è sceso a un multiplo di 10 volte rispetto a una media storica di 14.
Il mercato azionario americano è dunque sottovalutato (per Hussman più ancora che per Grantham). Ma è sottovalutato abbastanza? Uno sguardo ai grafici rivela come il P/E abbia oscillato tra minimi di 6-7 e massimi di 20, con due vistose eccezioni: la recente bolla di fine secolo, che proiettò il multiplo verso la stratosferica quota di 33 e la Grande Depressione degli anni ’30, quando il multiplo scese addirittura sotto quota 4.
Si nota poi un altro fenomeno, nel ciclico oscillare delle valutazioni attorno al loro livello medio: a periodi di sopravvalutazione hanno fatto immancabilmente seguito periodi di sottovalutazione, e viceversa. L’ottimismo ha generato altro ottimismo e infine euforia, il pessimismo ha generato altro pessimismo e infine disperazione. Nella disperazione sono stati piantati i semi di una rinata prosperità, nell’euforia sono germinate le condizioni del momentaneo sfascio.
Premesso che è ragionevole ritenere che questo ciclo ora si ripeterà, la domanda da porsi è: a che punto di negatività siamo arrivati col crollo di ottobre?
La risposta di Hussman è che – a un multiplo di 10 – la caduta nel pessimismo, per quanto rapida sia stata, si trova già a uno stadio avanzato.
Il ripetersi di una crisi analoga a quella del ’29 – così spesso e così superficialmente evocata dai media in queste settimane – appare estremamente improbabile.
Allora il pensiero economico dominante, con i suoi ideologismi e le sue rigidità, reagì impuntandosi nella difesa di politiche monetarie e fiscali restrittive. La portata dell’iniziale crisi finanziaria risultò moltiplicata fino a produrre una recessione economica che, negli Usa, durò ben 4 anni (rispetto a una durata massima di 16 mesi per le recessioni del dopoguerra). La contrazione del Pil fu pari, nel complesso, a un catastrofico 25%. La produzione industriale crollò del 45%, il tasso di disoccupazione arrivò al 25%, furono più di 5 mila le banche che chiusero i battenti con perdite enormi per centinaia di migliaia di depositanti.
Le ripercussioni fuori d’America furono anche peggiori. Collassò il sistema del commercio internazionale in una folle rincorsa a erigere barriere protezionistiche. La Germania, già destabilizzata dai trattati di pace che avevano messo fine alla prima guerra mondiale, andò in mano a Hitler e furono in tal modo poste le premesse per l’escalation di conflittualità che portò difilato alla seconda guerra mondiale.
Oggi la reazione alla crisi finanziaria è stata improntata alla collaborazione tra i governi e le autorità monetarie a livello planetario e centrata su interventi pubblici massicci a sostegno dei sistemi creditizi ed economici.
Un confronto più realistico con situazioni di crisi acuta può essere fatto guardando al periodo 1973-1982. Allora il P/E del mercato azionario americano scese in un paio di occasioni fino alla soglia di 7, rispetto al 10 di oggi. Ma l’inflazione, per diversi anni, andò praticamente fuori controllo, spingendo i rendimenti a lunga dei titoli del Tesoro americani all’8% nel 1974 e al 14% nel 1982, rispetto al 4% di oggi.
L’alto costo del capitale depresse per anni la redditività delle imprese americane mentre le ricche cedole del reddito fisso offrivano agli investitori l’illusione di un’alternativa più remunerativa, oltre che più sicura, delle azioni. Oggi non è così.
Le valutazioni attuali dei mercati azionari consentono di anticipare nei prossimi svariati anni, anche in assenza di un’espansione dei multipli verso il loro livello normale, rendimenti medi annui del 10% rispetto al 4% delle obbligazioni: una prospettiva decisamente favorevole alle azioni, almeno per chi sappia rimanere indifferente alla loro elevata volatilità di breve periodo.
Una volta ridimensionate come poco probabili le ipotesi di esiti estremi dell’attuale crisi, la considerazione di fondo resta solo una – la più importante per ogni value investor. Come dice Hussman: “Quel che è chiaro è che dopo oltre un decennio di straordinaria sopravvalutazione, le azioni sono finalmente scese a livelli di prezzo tali da offrire rendimenti attesi di lungo periodo sufficientemente elevati.”
Il gioco azionario è tornato a valere la candela.
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Giuseppe Bertoncello
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Etichette: mercati azionari, metodi di valutazione, value investing
sabato 18 ottobre 2008
Punto di svolta
Nell’ultimo paio di settimane il mio punto di vista sui mercati è cambiato. Chi ha letto il blog sa quanto io sia stato negativo – sin dai miei primi post nella primavera del 2007 - sulle prospettive del ciclo economico e delle Borse e quanta cautela abbia invitato a esercitare mentre montava quella che avevo descritto, ben prima che il processo entrasse nella sua fase acuta, come una gigantesca bolla del credito in procinto di trasformarsi in un'epocale crisi finanziaria (vedi ad esempio i post La prima bolla davvero globale, Le banche i mercati e la bolla del credito o Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche).
Ciò che poteva sembrare pessimismo si è dimostrato un realistico set di aspettative.
In tutti questi mesi, la gestione del mio portafoglio è stata allineata a quanto pensavo e andavo scrivendo. Nell’azionario avevo ridotto i miei investimenti, già dalla prima metà del 2007, a non più del 15% delle mie attività (un livello per me eccezionalmente basso), quasi esclusivamente in large cap molto difensive e con un alto tasso di dividendo. Avevo poi titoli di stato con scadenze non oltre i 5 anni e molta liquidità. Infine, avevo cominciato ad acquistare opzioni Put (con scadenze non inferiori ai 6 mesi, agli inizi, un po’ più brevi a bear market inoltrato) sull’indice S&P/Mib. Inizialmente poca roba, poi posizioni più significative, accumulate nelle discese dal picco dei bear market rally a metà maggio e a metà agosto di quest’anno.
Analisi e strategia si sono rivelate azzeccate. Questo bear market è stato uno dei periodi più redditizi della mia storia di piccolo investitore.
Solitamente sono un investitore poco attivo. Mi guardo bene dall’ingrassare i profitti dei miei broker. Ma nelle ultime settimane mi sono dato da fare. Prima ho liquidato tutte le mie Put. Poi, a cavallo dello scorso fine settimana, ho cominciato a comprare e a ricostituire una più normale e ben diversificata asset allocation. Data la mia situazione di partenza (molto cash e per il resto più titoli di stato che altro), ciò ha voluto dire e vorrà dire acquistare azioni.
Ne ho comprate per ora in misura prudenziale, facendo salire la quota azionaria al 40% circa del mio portafoglio di attività finanziarie: per me vuol dire restare comunque, per il momento, alquanto sottopesato nei confronti di questa classe di attivo.
Perché questo cambio di prospettiva?
Il lavoro che normalmente faccio è di leggere una gran quantità di analisi economiche, finanziarie e di mercato, di confrontarle tra loro, con i fatti che sono in grado di accertare, e con le opinioni di consenso che sembrano emergere di volta in volta dalla cronaca finanziaria (cercare di capire il consenso è importante non, come spero sia ovvio, al fine di appiattirsi su di esso ma per cogliere cosa i mercati già scontano e cosa invece è possibile che, almeno in parte, trascurino).
Poi elaboro – un po’ come può fare un medico alle prese con una diagnosi difficile o un Poirot impegnato a risolvere un caso di omicidio sull’Orient Express – delle mie congetture e valutazioni, che cerco di mantenere aperte e soggette a continue verifiche critiche. Insomma, analizzo fatti, opinioni e analisi, sforzandomi di non innamorarmi né dei miei analisti preferiti né dei miei punti di vista.
Nei 18 mesi dalla nascita del blog mi sono ritrovato continuamente ad avere a che fare con castelli in aria, rigonfi di illusioni. Come ho via via osservato, era scorretto pensare che la crisi del credito fosse limitata al mercato dei mutui subprime, era ingenuo pensare che il contagio sarebbe stato “contenuto” (quando i “germi”, e cioè gli asset tossici, avevano viaggiato dappertutto, complice una cultura e una gestione del rischio all’interno delle istituzioni finanziarie radicalmente da rifondare), era da sprovveduti credere che le ricadute sull’economia reale sarebbero state così limitate da consentire di evitare una recessione.
I fatti mostravano come stesse montando uno tsunami finanziario di dimensioni senza precedenti. Investitori come Jeremy Grantham, economisti come Nouriel Roubini e analisti finanziari come Satyajit Das (che ho a più riprese citati nel mio blog) li avevano esposti e analizzati a fondo, e le loro posizioni mi sembravano le più realistiche e fondate.
Per contro, la vicenda quotidiana dei mercati vedeva continuamente riaffiorare stravaganti speranze, come quella che il salvataggio di Bear Stearns e il pacchetto di aiuti fiscali di Bush potessero essere il punto di svolta (tra marzo e maggio) o che il crollo del prezzo del greggio (tra luglio e agosto) fosse il toccasana che avrebbe rivitalizzato le economie.
In verità, il pacchetto Bush era come una di quelle dighe di sabbia che i miei figli costruiscono in spiaggia per arrestare la marea, la crisi di Bear Stearns era solo un avvertimento di quanto stava per scatenarsi a livello sistemico, la fine del rally delle materie prime (come avrebbe dovuto essere facile capire) segnalava il dilagare della crisi economica su scala globale.
Finché i mercati azionari erano popolati di illusioni, era conseguente ritenere che avrebbero continuato la loro marcia al ribasso, a mano a mano che le fantasticherie lasciavano il passo alla realtà.
Ora pare a me che le illusioni siano tutte in pezzi. C’è invece il panico degli investitori, da un lato, e il massiccio intervento pubblico dall’altro. Sui media abbondano i riferimenti al 1929, gli economisti vedono e prevedono una lunga recessione globale, banche centrali e governi finalmente riconoscono la natura sistemica della crisi finanziaria stanziando a sostegno delle banche importi pari a svariati punti di PIL.
Tipicamente, quando si arriva al punto in cui il crollo delle illusioni spiana la strada al panico, là dove si arresta la spasmodica ondata di vendite il bear market è, nella sostanza, finito.
L’altra settimana per tre giorni su cinque si sono registrati, a Wall Street, dei cosiddetti 9/10 days, e cioè sedute in cui oltre il 90% dei titoli ha chiuso al ribasso – un accadimento raro di per sé, che forse non si è mai ripetuto prima (escluso il collasso del 1929 e dintorni) addirittura per tre volte in una settimana e che tende a concentrarsi in prossimità dei punti di svolta del mercato.
I volumi sono stati elevati e venerdì 10 sono stati addirittura doppi rispetto alla media degli ultimi mesi. L'indice VIX della volatilità del mercato, chiamato anche “l’indice della paura” (perché l’alta volatilità si associa alle crisi di panico), ha toccato livelli record.
L’andamento dei mercati, insomma, è stato quello che in genere si riscontra al fondo di una crisi e di un bear market.
Al tempo stesso, la discesa verso soglie prossime a quelle dei minimi del bear market del 2000-2002 ha riportato le valutazioni dei mercati azionari a livelli attraenti – i più interessanti da un quindicennio a questa parte (molto più attraenti e potenzialmente remunerativi, in particolare, dei livelli valutativi da cui prese le mosse il bull market del 2003-2007).
Non si tratta – va riconosciuto – di multipli altrettanto stracciati come quelli da cui prese l’abbrivio il grande bull market secolare del 1982-2000. Ma non è detto che per forza di cose si debba scendere a valori tanto depressi.
Dunque, il bear market è finito? Non ho certezze. Di fronte ai mercati si può ragionare solo in termini probabilistici. Quello che penso è che i rischi di ulteriori ribassi, a questo punto, dopo il dimezzamento patito dalle quotazioni di Borsa negli ultimi 12-18 mesi, siano ridotti a sufficienza da rendere ragionevole – almeno per chi, come me, ha saputo finora sfuggire alle grinfie di questo bear market - la scelta di cominciare ad accumulare esposizione verso l’azionario. In un orizzonte pluriennale, è molto probabile che ci sia più da guadagnare che da perdere.
Accumulare gradualmente ha senso in sé, come tecnica di diversificazione del rischio nel corso del tempo, e ha senso anche alla luce delle caratteristiche tipiche delle fasi di inversione del mercato azionario. Un bear market non finisce in un istante. Anche ipotizzando, come sto facendo, che i minimi di venerdì 10 ottobre segnino un momento importante in questo ciclo di mercato, la storia ci dice che nel corso dei prossimi mesi quei livelli, probabilmente, verranno ritestati.
Nel 2002-2003, i principali indici americani ridiscesero verso le soglie di luglio in altre due occasioni, a ottobre e a marzo, per muovere poi decisamente al rialzo solo dopo aver formato una “base” nel corso di ben otto mesi. Nel 1974, alla fine dell’altro più poderoso bear market del dopoguerra, i minimi di ottobre furono riavvicinati a dicembre in un processo di inversione di tendenza che fu più breve ma impegnò comunque più di tre mesi.
Nell’uno e nell’altro caso, i rimbalzi dal fondo, tra un minimo e l’altro, furono del 25%-30%. Ed è un’ipotesi che oggi trovo attraente – più che altro come congettura sulla psicologia del mercato e la tendenza a ripetersi di certi pattern.
Detto in sintesi, e in modo chiaro, l’idea che più mi convince – al momento e fino a prova contraria – è che le Borse abbiano stabilito venerdì dell’altra settimana un livello importante, prossimo ai minimi di questo ciclo, da cui è probabile che si rimbalzi anche del 30% (per l’S&P/Mib questo vorrebbe dire risalire verso quota 26 mila), ma che è altrettanto probabile venga ritestato nei prossimi mesi.
Qualcuno obietterà: ma come farà il mercato a rimbalzare in una fase in cui le notizie sul ciclo economico non fanno che peggiorare? Ogni volta che le Borse tornano a scendere (e anche nell’ultima settimana ci sono state discese a rotta di collo), i media non fanno che riportare i commenti di “esperti” i quali sottolineano come, passata forse la fase più acuta della crisi finanziaria, è l’economia reale ora a preoccupare.
Si può rispondere in due modi.
Il primo è che una seria recessione (la più grave dell’ultimo quarto di secolo) è, a questo punto, del tutto scontata nelle quotazioni di mercato. L’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal tra gli economisti americani dimostra che una stragrande maggioranza prevede un dato del PIL negativo nel terzo e quarto trimestre di quest’anno e anche nel primo trimestre del 2009.
La recessione negli Usa, come ho più volte argomentato nel blog, è probabile che sia iniziata a cavallo tra il 2007 e il 2008, con una breve pausa nel secondo trimestre, grazie ai temporanei effetti espansivi del pacchetto di aiuti fiscali dell’amministrazione Bush. Di questa recessione, insomma, siamo già a metà strada o forse anche un po’ oltre.
La seconda osservazione è che non è affatto inconsueto che il mercato azionario cominci a risalire la china nel pieno di una crisi economica. Anzi, è la normalità. Lo dimostra uno studio pubblicato questa settimana dal blog Ticker Sense, da cui risulta (vedi tabella qui sotto) che negli ultimi quattro decenni il fondo di un bear market è stato in media toccato quando la concomitante recessione aveva compiuto appena il 57% del suo corso.
Alla fine della recessione, gli indici azionari si trovavano in media un 27,3% al di sopra dei minimi. Come a dire che è nel pieno di una crisi economica, approfittando del pessimismo che la congiuntura negativa e il crollo dei mercati diffondono a piene mani, che un investitore riesce a cogliere le migliori opportunità.
E’ la lezione che ha sempre insegnato Warren Buffett, e che anche ieri il saggio di Omaha è tornato a riproporre in un articolo sul New York Times: “Be fearful when others are greedy, and greedy when others are fearful” (“Devi avere paura quando gli altri sono avidi, ma essere avido quando gli altri hanno paura”).
P.S.: Devo qualche spiegazione ai lettori del blog. Non è mai stata mia intenzione riporlo in soffitta, come forse il mio silenzio nell’ultimo paio di mesi ha lasciato pensare. C’è invece un’altra ragione per la mia assenza. L’Investitore Accorto è una piccola opera volontaria realizzata nel tempo libero. La gratuità che lo caratterizza, nelle ultime settimane, l’ho dovuta riservare interamente a persone che mi sono vicine. Ora che ho cominciato a prendere le misure con le mutate circostanze, conto di poter riprendere anche il blog – magari, almeno per ora, in forme più essenziali che in passato. Ringrazio quanti mi hanno scritto, o nello spazio dei commenti o direttamente al mio indirizzo di posta elettronica. Come di consueto, cercherò di inviare a tutti un cenno di risposta.
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Giuseppe Bertoncello
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mercoledì 13 agosto 2008
Recessioni, bear market e castelli in aria
Di come funzionino l’economia e i mercati finanziari molto ci sfugge. Qualcosa, però, si sa, come ad esempio che seguono dei cicli. A un’espansione fa seguito una recessione e dopo un bull market viene un bear market, un po’ come al giorno segue la notte. La regolarità, s’intende, non è la stessa. Economie e mercati sono espressioni della socialità umana, fenomeni storici segnati da un’intrinseca imprevedibilità. D’altra parte, non sono neppure totalmente impenetrabili, irrazionali e caotici. Ci sono delle costanti, magari instabili, magari non precisamente misurabili, che comunque ci possono aiutare a orientarci. E tra queste, la ciclicità è una delle più evidenti.
Osserviamo, per fare un esempio, il grafico che segue, a cura della Federal Reserve Bank di San Francisco. Mostra l’andamento del Pil americano dal 1946 all’inizio del 2008. Le fasce in grigio indicano le recessioni.
Negli ultimi 62 anni si sono alternate 11 fasi espansive e 10 recessioni. Nell’economia in rapida crescita che ha caratterizzato l’ultimo paio di secoli di storia umana, le espansioni durano molto più a lungo delle recessioni. E infatti, dal 1946 a oggi, negli Usa, le prime si sono protratte in media per 57 mesi, le seconde solo per 10. Sommando, si ottiene la durata media del ciclo economico americano, che è stata di 67 mesi, ossia poco più di 5 anni e mezzo.
Si tratta, come accennavo, di un ciclo piuttosto irregolare. Le recessioni oscillano tra i 6 e i 16 mesi (la più breve fu quella del 1980, le più lunghe, alla pari, quelle del 1973-75 e del 1981-82). Mentre le espansioni hanno avuto una durata variabile tra i 2 anni (1958-1960) e i 10 anni (1991-2001).
Per prevedere una recessione, dunque, non basta guardare il calendario!
Un esperimento mentale
D’altra parte, avere un’idea del ciclo economico, pur con tutta la sua instabilità, e delle sue dimensioni medie ci può essere d’aiuto. Per capirlo, proviamo a fare un piccolo esperimento mentale.
Immaginiamo di trovarci al settimo anno di un’espansione che ha fatto seguito a una delle recessioni più brevi della storia (8 mesi), la quale a sua volta è venuta dopo un’altra fase di crescita addirittura decennale, la più lunga della storia (per lo meno dal dopoguerra a oggi).
Immaginiamo anche che questi 204 mesi (17 anni) di crescita inframmezzati da solo 8 mesi di una scialba contrazione (ricordiamolo, il rapporto medio tra espansioni e recessioni è di 57 a 10, non di 204 a 8) siano stati il frutto non tanto di rivoluzioni tecnologiche e “miracoli” di produttività senza precedenti, ma, in misura prevalente, di un’economia drogata dall’eccessiva disponibilità di credito (e conseguente accumulazione di debito).
A questa lunga onda espansiva, va infatti aggiunto, si sono accompagnate la più grande bolla azionaria della storia, la più grande bolla immobiliare della storia, e infine la più grande bolla del credito della storia – tutti fenomeni che hanno fortemente squilibrato e indebolito l’economia oggetto del nostro esperimento mentale.
Immaginiamo, infine, che i prezzi del petrolio aumentino del 600%, superando a spron battuto quei livelli che in passato hanno invariabilmente provocato delle crisi economiche. E che contestualmente, una dopo l’altra, scoppino tutte le bolle, provocando una corsa a vendere asset, ridurre i debiti, contrarre il credito.
A questo punto, dopo 204 mesi di espansione, interrotti solo da una breve pausa di 8 mesi, gli indicatori di crescita volgono bruscamente al peggio, scendendo da tassi annui di crescita superiori al 4% fino in prossimità dello zero.
Siamo alla fine dell’esperimento. Voi, a questo punto, su quale esito scommettereste? Recessione, sì o no?
La conclusione, per ora, sono costretto a tirarla da solo. Io scommetterei decisamente sulla recessione, e mi viene da aggiungere che non vedo come una persona ragionevole potrebbe fare altrimenti. Nelle previsioni, ben inteso, la certezza non esiste. Ma in base al quadro che ho illustrato, le probabilità sembrano troppo sbilanciate a favore dell’esito negativo per non puntare lì le proprie fiches.
Le previsioni della Federal Reserve
Bene, come penso chiunque avrà capito, quella che ho proposto di immaginare è in realtà la situazione in cui versa – da un po’ di tempo - l’economia americana.
Il mondo dell’economia e della finanza pullula di persone ricche di talento. Qualcuno, immaginandolo, penserà: beh, certo non sarà sfuggito che l’economia Usa è già in recessione o sta per cadervi. I più esperti l’avranno capito e fatto capire da un pezzo.
Vediamo se è davvero così, facendo ritorno a poco più di un anno fa e prendendo le mosse dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che è un concentrato di competenze e materie grigie orchestrato dal presidente Ben Bernanke, uno degli economisti più bravi al mondo.
Nel maggio dell’anno scorso gran parte degli ingredienti che ho illustrato nel mio esperimento mentale si erano già in qualche misura manifestati. Il Pil, ad esempio, aveva registrato una fase di crescita particolarmente debole nel quarto trimestre del 2006. Il prezzo del petrolio non si era certo ancora moltiplicato di 7 volte da quei 20 dollari a barile che quotava alla fine dell’ultima recessione americana, nell’autunno del 2001, ma aveva sfiorato gli 80 dollari: pur sempre un’impennata del 300%. Il mercato della casa era già in brusca contrazione e la crisi dei mutui subprime era sotto gli occhi di tutti.
Io, nel mio piccolo, avevo allertato i miei lettori degli evidenti pericoli di crisi economica (non solo in America), di un crollo degli utili e di un pericoloso bear market azionario in tre post in rapida successione, che forse vale la pena rileggere: “Utili record e utili normalizzati”, “Analisi strategica del ciclo” e “La prima bolla davvero globale”.
In quello stesso maggio, a Chicago, Bernanke tenne un discorso interamente dedicato all’analisi dei problemi nel mercato dei mutui subprime.
Le conclusioni, in sostanza, erano le seguenti:
- non ci sono segni di spillover, ossia di ricadute negative, sulle banche. I gruppi creditizi coinvolti sono operatori marginali, “in gran parte” neppure coperti dall’agenzia federale che assicura i depositi.
- i fondamentali economici dovrebbero sostenere la domanda di case. La crescita dei posti di lavoro e dei redditi dovrebbe garantire la sostenibilità dell’esposizione debitoria delle famiglie. Pertanto, la situazione critica nel settore dei mutui subprime avrà effetti “limitati” sul mercato immobiliare. La stragrande maggioranza dei mutui continuano a performare “bene.”
Come oggi sappiamo, queste conclusioni non avrebbero potuto essere più fuorvianti e sbagliate.
In quel periodo, la Federal Reserve faceva riferimento a un quadro di stime macroeconomiche (reso pubblico a febbraio) che prevedeva una crescita del Pil del 2,5%-3,0% nel 2007 e del 2,75%-3,0% nel 2008, un tasso di disoccupazione stabile al 4,5% e un’inflazione poco sopra il 2% nel 2007 ma in calo l’anno successivo.
Seguire l’evoluzione di queste stime è istruttivo.
A luglio, nel tradizionale rapporto semestrale consegnato al Congresso, la Fed si fece un po’ più cauta nella sua previsione di crescita per l’anno corrente (2,25%-2,5%) ma conservò l’assunto che le cose sarebbero andate meglio nel 2008, quando il Pil sarebbe cresciuto del 2,5%-2,75% e l’inflazione sarebbe tornata sotto controllo.
In merito a quest’ultimo punto, la Fed notava in particolare come “alcuni dei fattori che hanno esercitato pressioni sui prezzi in anni recenti già hanno cominciato ad attenuarsi, o sembrano comunque in procinto di farlo. L’andamento dei prezzi dell’energia e delle altre materie prime, implicito nei contratti future, suggerisce che le pressioni sull’inflazione core da essi derivanti dovrebbero diminuire.”
Di conseguenza, conclusero allora diversi analisti di spicco, tra cui ad esempio quelli di Goldman Sachs, era ragionevole attendersi che i tassi a breve (i Fed funds) restassero invariati al 5,25% per un bel po’.
Giusto? No, patetico wishful thinking, verrebbe da commentare oggi, brandendo senza misericordia il nostro senno di poi. In realtà, la crescita stava per implodere, l’inflazione per esplodere e i tassi erano in procinto di essere tagliati, in rapida successione tra settembre e aprile, dal 5,25% al 2%.
Da lì in poi – novità introdotta da Bernanke – le stime macroeconomiche della Fed vennero rese pubbliche a cadenza trimestrale, anziché semestrale. Continuiamo a seguirle.
A novembre la banca centrale tagliò di nuovo la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5%, citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione.
In un’audizione di fronte al Congresso, i cui contenuti furono in genere descritti dai media come “deprimenti” (gloomy), Bernanke, pur non eludendo un’analisi dei rischi, si disse comunque convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiunse, “pensiamo che a partire dalla primavera (2008, ndr), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”
Sappiamo ora che nel corso dell’ultimo trimestre del 2007 la crescita del Pil americano fu negativa (-0,2%). A marzo di quest’anno, poi, la Fed era alle prese col salvataggio di Bear Stearns e dopo di allora i problemi non si sono affatto risolti, anzi. A luglio c’è stato il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e giusto ieri JP Morgan ha annunciato nuove perdite citando un marcato peggioramento degli spread e delle condizioni del mercato del credito nell’ultimo mese (novità che non avrebbe dovuto sorprendere chi, ad esempio, ha seguito la recente impennata nelle quotazioni dei credit default swaps, strumenti derivati utilizzati per assicurarsi contro i rischi di insolvenza).
E’ inoltre facile osservare che il mercato della casa non ha per ora dato alcun cenno di voler toccare il fondo (ne riparlerò più avanti) e che gli indicatori di crescita, dopo un effimero rimbalzo nel secondo trimestre dell’anno, dovuto ai 170 miliardi di dollari di incentivi fiscali approvati in fretta e furia dal Congresso e dalla Casa Bianca all’inizio dell’anno, sono tornati negli ultimi tempi a volgere al peggio (anche di questo parlerò più diffusamente nel seguito di questo post).
A posteriori, gli annunci novembrini di Bernanke, per quanto etichettati allora come “deprimenti”, appaiono contrassegnati da un irrealistico ottimismo.
A febbraio, col nuovo aggiornamento trimestrale delle previsioni macro, la Fed riduceva la stima del Pil per il 2008 all’1,3%-2,0%. E un ennesimo, più drastico taglio è stato annunciato a maggio, questa volta a una forchetta dello 0,3%-1,2%. Vedremo, tra pochi giorni, quali sorprese ci riserveranno le stime di agosto.
Gestione dei rischi, statistiche e lampioni
Un osservatore disincantato, a questo punto, potrebbe intravedere nella storia che ho ricostruito un filo rosso di continuità.
Esclusa la sistematica imperizia, verrebbe naturale supporre una tecnica di gestione dei rischi (penso a rischi di feedback negativi e di reputazione) così strutturata: di fronte all'elevata probabilità di un accadimento sgradevole e potenzialmente traumatico e destabilizzante, negare finché è possibile farlo senza distruggere la propria credibilità, ammettere quello che non può più essere negato, ma prestando bene attenzione a condire ogni annuncio negativo con delle rassicurazioni positive di prevalente portata (ad esempio, “stiamo attraversando un trimestre, al massimo due, di congiuntura bassa, ma già si vede la svolta e l’anno prossimo le cose andranno progressivamente sempre meglio”).
Forse, in questo approccio, ci sono diverse cose da salvare. Ma non dal punto di vista dell’investitore, il cui interesse non è quello di coltivare illusioni, ma di interpretare lucidamente la realtà.
Nella seconda parte di questo post cercherò di illustrare altri esempi di “castelli in aria”, costruiti un po’ dovunque, in America come qui in Italia, da esponenti di diverse categorie (fonti di insidie costanti per un investitore) tra le quali alberga spesso l'interesse a negare, per quanto possibile, finché possibile, l’approssimarsi o l’instaurarsi di una recessione: analisti finanziari, esponenti di governo, giornalisti di media vicini alle istituzioni.
Cercherò anche di mostrare come alcune apparenti “contraddizioni” e ambiguità statistiche che, in qualche misura, continuano a velare l’evidenza di una recessione che dall’America si sta ormai estendendo all’Europa siano facilmente decrittabili, solo che lo si voglia.
Purtroppo, tale lavoro interpretativo è attivamente ostacolato da un fenomeno che già aveva scatenato l’arguzia di uno straordinario osservatore delle vicende umane. Diceva Mark Twain: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione”. Certa gente, mi permetto di aggiungere, in modo particolare.
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Giuseppe Bertoncello
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giovedì 7 agosto 2008
Mercati azionari, un rimbalzo senza qualità
Dai minimi di metà luglio i mercati azionari hanno in genere recuperato poco più di un terzo di quanto avevano ceduto nell’ondata ribassista che li aveva travolti nei due mesi precedenti. Il rimbalzo, partito con la ferocia tipica di uno short covering rally, ha poi perso d’intensità per il permanere di forti dubbi sulle prospettive dei settori immobiliare e del credito e, più nel complesso, di una congiuntura globale in progressivo deterioramento. Anche se, negli ultimi giorni, una nuova spinta rialzista è venuta dalla precipitosa caduta dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere.
Come cercherò di mostrare in altri post nei prossimi giorni, la mia percezione è che i fondamentali, nelle ultime settimane, siano peggiorati e che una certa parte degli analisti e degli operatori di mercato continui a coltivare pericolose illusioni. Il peggio non è passato, né nel settore immobiliare né in quello del credito. Mentre la crisi, partita dagli Usa, ha finito per globalizzarsi investendo in pieno l’Europa senza risparmiare l’Asia.
Se qualche mese fa la Federal Reserve era ancora in grado di promettere una graduale ripresa del ciclo americano a partire dalla seconda metà dell’anno, ora la sensazione sgradevole che si fa strada è che invece anche l’ultimo puntello dell’economia Usa – l’export – stia perdendo colpi via via che la congiuntura internazionale si appanna e si allunga la lista dei paesi sull’orlo della recessione: oltre agli Usa, la Gran Bretagna, la Spagna, l’Italia, la Germania, la Francia, il Giappone, il Canada…vale a dire, tutte le principali economie avanzate.
Qui, però, vorrei tralasciare l’analisi dei fondamentali e limitarmi a dare uno sguardo alla qualità, dal punto di vista tecnico, del rimbalzo delle Borse dai minimi di luglio. Come ho già fatto in passato, vorrei citare uno dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger, e il suo splendido blog TraderFeed.
In un post pubblicato ieri, Steenbarger osserva come i nuovi massimi fatti segnare da alcuni indici, come l’S&P 500, il Nasdaq e il Nasdaq 100, non si siano accompagnati a un’espansione del numero di titoli che – nei vari mercati americani (New York Stock Exchange, Nasdaq, American Stock Exchange) - hanno registrato nuovi massimi (New High) negli ultimi 20 giorni.
Quello che segue è il grafico che mette a confronto l’andamento dell’S&P500 con i New High. Come si nota, il numero (in blu) è in costante calo.
Inoltre, quando ieri gli indici Usa si sono spinti oltre i precedenti picchi della settimana precedente, a partecipare al rally sono stati solo alcuni settori, mentre si è fatta notare l’assenza dei due settori che nell’ultimo anno hanno trainato al ribasso i mercati, e cioè finanziari e immobiliari.
La conclusione che ne ricava Steenbarger è che, sinora, il rimbalzo dai minimi di luglio non è convincente. Sia a livello di settori che di titoli, la partecipazione al rialzo è selettiva e, nel complesso, troppo angusta per ispirare fiducia.
In altri termini, quando muove al rialzo il mercato, in queste ultime settimane, si comporta come un esercito dove la truppa è riluttante a seguire i generali. Si tratta di una condizione che avevo già messo in evidenza in un post a metà maggio, e che allora, assieme a diverse altre considerazioni, mi aveva portato a concludere così:
“Il rally dai minimi di marzo, per quanto apparentemente vivace nell’andamento di prezzo degli indici, è stato in verità asfittico e fragile. Non è di questa pasta che sono fatte le fasi iniziali di un nuovo bull market, che sono invece cariche di energia repressa […] La situazione può cambiare. La mia analisi è senz’altro fallibile e incompleta. Ma, al momento, sarei molto sorpreso di vedere il rally continuare ancora per molto. Più probabile, mi pare, è che prima o poi si torni ai minimi di marzo per spingersi, magari, anche oltre.”
Si tratta di conclusioni che allora si sono rivelate corrette (le Borse fecero dietrofront esattamente una settimana più tardi) e che mi sento di confermare, più o meno immutate (la sola differenza, direi, è che il rally dai minimi di luglio è stato meno vivace di quello dai minimi di marzo) anche oggi.
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Giuseppe Bertoncello
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Il Dow guadagna 300 punti? E’ un brutto segno
Spero che nessuno si sia troppo esaltato per il rialzo del 3% messo a segno l’altro giorno dagli indici azionari di casa nostra. Che fosse un brutto segno, l’ho pensato subito. Ma non sapevo come dirlo. Poi, grazie al blog The Big Picture di Barry Ritholtz, ho risolto il mio problema.
Ritholtz cita infatti un’analisi di David Rosenberg, North American economist di Merrill Lynch, da cui risulta che queste spiritate fughe in avanti accadono solo in un bear market, ossia in un mercato ribassista.
Il rialzo del 3% della Borsa di Milano è coinciso, a Wall Street, con un rally di 331 punti, pari al 2,9%, dell’indice Dow Jones Industrial.
Ma di rialzi di 300 punti o più del Dow Jones, nella storia dei mercati americani, c’è traccia solo negli ultimi due bear market, l'attuale e quello del 2000-2002.
Per l’esattezza, quello dell’altro ieri è stato il sesto rally di oltre 300 punti dall’avvio del ciclo ribassista iniziato l’ottobre scorso (un settimo rally da 336 punti si configura come un caso borderline, giacché ha avuto luogo il 18 settembre, subito prima che il mercato cambiasse direzione). Mentre nel 2000-2002, quando il Dow perse complessivamente il 38% del suo valore, i rialzi di questa entità furono addirittura 12 (per i dettagli, vedi la tabella alla fine).
Nel lungo bull market durato dall’autunno del 2002 all’autunno del 2007 di rally da 300 punti non c’è traccia. Il motivo è che movimenti così esagerati, nell’arco di una sola seduta, sono espressione di quella elevata volatilità che è una caratteristica tipica dei mercati ribassisti.
La stessa lezione può essere estesa al rally dei titoli bancari, che a Wall Street hanno recuperato il 30% circa da metà luglio, quando il Tesoro americano e la Fed sono intervenuti a sostegno di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti malati del credito fondiario.
Rosenberg osserva come nel 2000-2002, quando nell’occhio del ciclone c’erano i titoli tecnologici, l’indice Nasdaq arrivò a perdere quasi l’80% del suo valore dopo aver percorso ben tre fasi di concitati rialzi superiori al 30%.
Insomma, i bear market rally possono anche impressionare (e far male a chi specula troppo incautamente al ribasso). Ma sono fuochi di paglia.
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Giuseppe Bertoncello
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